Caro Direttore
Da un po’ di tempo una domanda mi è rivolta con sempre più insistenza, tanto che ho voluto farla mia: come mai abbiamo la percezione che le politiche sociali non funzionino nelle nostre città, ovvero nella nostra regione?
Si apre da qui, in effetti, un vero e proprio vortice di altre domande, alle quali, molto probabilmente, risulterà difficile fornire una risposta, almeno in prima battuta.
Facciamo che, intanto, una di tali domande riecheggi come uno spettro impossibile da scacciare, sì, facciamo che sia così: perché tre vite umane come le vittime delle fiamme assassine di Corso Telesio, a Cosenza, sono rimaste totalmente abbandonate a se stesse?
Ma di esempi di esecranda condizione di vita, nelle nostre città (e non soltanto nei centri storici) se ne potrebbero fare, ahinoi, veramente a centinaia e di natura diversa.
Sicché tutto è fermo intorno a un perno che, anziché girare, agisce da elemento di blocco di tutto un sistema: il Welfare.
Non sappiamo, ad oggi, di quale natura sia la forza di tale blocco, né da quale fonte tragga origine: l’invito, qui argomentato, è di tentare di scoprirlo.
Ci troviamo di fronte a una questione che, lungi dal darci una risposta, ci vede ancora fermi al problema della sua comprensione.
Senza contare il taglio dei fondi governativi imposto alle Regioni (con cui il Sud perde una fetta di 50 milioni), nessuno può dire che il terzo settore non sia economicamente coperto.
I soldi ci sono e lo sa ogni scolaretto. Può essere che non bastino? Forse. Ma ci si deve chiedere, prima ancora, quale sia il criterio di ripartizione della spesa.
Come viene gestito il denaro destinato – poco o tanto che sia – al sostegno degli asili nido, delle famiglie povere, dell’assistenza domiciliare, dei centri antiviolenza, dei disabili e degli anziani non autosufficienti? Tanto per fare una prima sfilza di esempi a caso.
Non vogliamo, in questa sede, occuparci di capire se vi sia taluno dalle mani disoneste e lunghe a fare razzìa di queste risorse, preziosissime per il bene comune e per la vita stessa dei singoli.
Vorremmo però qualche risposta di consapevolezza – se ve ne fossero – circa i criteri di scelta nella distribuzione dei soldi pubblici destinati a quegli scopi.
Vorremmo anche sapere se quei criteri – appurato che ve ne siano – mettano gli operatori nelle condizioni di svolgere bene il loro compito.
Sappiamo una cosa: che lo schema di erogazione è monotematico. Ciò vuol dire che la Regione Calabria individua anno per anno un solo settore – ad esempio l’assistenza domiciliare – e soltanto a questo destina i fondi.
Questo vuol anche dire che quanti si occupano – ad esempio – di disabilità, dovranno aspettare che arrivi, forse, l’anno successivo.
Nel frattempo, gli assistenti domiciliari dovranno farsi bastare quanto ricevuto in precedenza, fino al turno ipoteticamente successivo.
È come prendere una coperta (che, si ripete, non sappiamo a oggi se sia bastevole oppure sia corta) e farla in tanti pezzettini per quanti sono i letti da coprire.
Sappiamo dunque che il denaro viene, bene o male, destinato a qualcosa e qualcuno. I responsabili degli uffici comunali di settore dovrebbero incominciare a farsi sentire in proposito.
Soprattutto con il sovraordinato Ente Regionale. È una discussione, questa, che deve coinvolgere tutta la regione Calabria.
I funzionari regionali di settore dovrebbero sapere e dar conto non soltanto della misura della spesa, bensì dei risultati che detta misura avrebbe prodotto.
È un’analisi necessaria. Le politiche sociali riguardano tutti. Soprattutto riguardano chi direttamente lavora sul terreno delle cosiddette “categorie svantaggiate”, ossia gli operatori, quindi le associazioni, quindi le cooperative: tutta una forza lavoro, insomma, nata per produrre un beneficio sociale di cui, tuttavia, a oggi non si vede alcunché.
È nelle condizioni, tale enorme forza lavoro, di mettere a frutto i contributi che riceve ? Dispone la Regione di strumenti atti a rendere trasparente l’operato di queste risorse private?
In questo bailamme emerge un nodo ricorrente, cioè che il comportamento eventualmente scorretto di un’associazione o di una cooperativa dipende dalla confusione a monte nella gestione delle risorse.
Messi a parte i comportamenti illeciti voluti, come si possono evitare, invece, quelli assolutamente involontari, commessi cioè nel caos gestionale di un settore che, del resto, vede soltanto crescere un allarmante stato di emergenza?
D’altro canto, ai magistrati della Corte dei Conti importa solo che i fondi vengano spesi per le mansioni precise cui sono stati destinati. Se ciò non avviene, si chiama “distrazione dei fondi”. Punto.
Un esempio sotto gli occhi di tutta la popolazione di Cosenza riguarda la Città dei Ragazzi. Qui, le distorsioni del mercato del lavoro si palesano con una storia che parte da una forza lavoro di 40 unità impiegate all’origine, per arrivare, a oggi, al numero di 2 cooperative con un totale di 7 unità lavorative.
Si tratta di due cooperative impegnate – si pensi! – con il mondo degli anziani e dei disabili, allorché si occupano della loro assistenza.
Potrebbe, a questo punto, saltar dalla sedia un titolare di cooperativa per asserire – giustificandosi – che la Regione ha in questi anni indirizzato i fondi solo a questo capitolo di spesa.
Siamo arrivati al paradosso! La Città dei Ragazzi può continuare a sopravvivere soltanto se viene “trattata” come una Città degli Anziani. Così la coperta del sostegno pubblico viene tagliata a pezzettini, con il risultato che nessuno ottiene la giusta misura.
In fondo al discorso si apre una visuale sul mondo delle cooperative. Posto che sono titolate ad agire come vere e proprie imprese sociali autonome e autosufficienti, perché mai restano ferme all’emolumento pubblico?
La legge consente loro di operare, a tutti gli effetti, come una azienda produttrice (di utili!) ma, tant’è, sembrano essersi arrese alla propria incapacità imprenditoriale. Ma questo è un discorso che approfondiremo in seguito”.
Sebastiano Barbanti
Deputato PD